Il San Raffaele avvia maxi clinical trial contro COVID-19

L’IRCCS Ospedale San Raffaele ha avviato un maxi studio clinico osservazionale che include le diverse centinaia di pazienti con COVID-19 già in cura presso la struttura e tutti quelli che verranno ricoverati d'ora in avanti. Lo studio, coordinato dai professori Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare e Giovanni Landoni, direttore del Centro di Ricerca in Anestesia e Terapia Intensiva all’interno della stessa Unità, è un protocollo unitario che permetterà di raccogliere in modo sistematico informazioni cliniche e biologiche che consentiranno di avere a disposizione dati affidabili sull’efficacia dei farmaci oggi somministrati negli ospedali italiani.

All’interno dello studio ogni paziente segue lo stesso iter terapeutico che inizia con il prelievo di diversi campioni biologici. La speranza dei ricercatori del San Raffaele e che, tramite l’incrocio delle informazioni che emergono dai campioni, con i protocolli di trattamento e i dati clinici raccolti dai pazienti lungo l’intero periodo di degenza, si possa riuscire a comprendere meglio cosa accomuna i pazienti più gravi, quali sono gli indicatori che ci permettono di prevedere il decorso della malattia e quali sono i farmaci che funzionano meglio nei diversi casi.

E’ un fatto dimostrato che i sintomi del nuovo Coronavirus si manifestano con differente gravità: infatti in quasi l’80% dei pazienti la presenza del virus è poco o per nulla sintomatica mentre nel restante 20% è causa di una polmonite grave. In questo 20% di pazienti più gravi che è necessario ricoverare in ospedale, molti si riprendono con la sola somministrazione dell’ossigeno, ma altri necessitano della terapia intensiva e, in alcuni casi, addirittura dell’ossigenazione extracorporea.

Sembra che spesso alla base dell’aggravamento dei sintomi ci sia un’eccessiva risposta del sistema immunitario, in quanto in una parte dei pazienti si osservano altissimi livelli di infiammazione, tali da far ritenere che il danno polmonare sia causato in modo sostanziale anche dalle difese immunitarie stesse, ormai fuori controllo. Capire quali sono i pazienti più a rischio che possono sviluppare questo tipo di decorso e intervenire precocemente su di essi potrebbe fare la differenza, ed ecco perché una sperimentazione rigorosa su gruppi omogenei di pazienti è fondamentale.

Non esistono farmaci specifici per COVID-19, e le terapie sperimentali testate in queste settimane in Italia sui pazienti affetti dal coronavirus utilizzano tutti farmaci in regime off-label (approvati ma indicati per altre patologie) o non ancora approvati e somministrati a uso compassionevole. La prima classe di farmaci sono gli antivirali: i più utilizzati sono la clorochina o l’idrossiclorochina, molecole commercializzate già dal primo dopoguerra come farmaci contro la malaria, ma dotati anche di proprietà antivirali e antinfiammatorie. Altri farmaci antivirali utilizzati sono Kaletra, solitamente impiegato per HIV, e Remdesivir, sviluppato per Ebola ma che nei primi test di laboratorio era risultato efficace anche su un coronavirus (diverso da SARS-Cov-2). A differenza degli altri, non essendo mai stato approvato per il commercio, Remdesivir viene per ora somministrato a scopo compassionevole in terapia intensiva, ma a breve dovrebbe però entrare nei primi trial clinici con pazienti in fasi meno avanzate della malattia.

L’altra grande classe di farmaci usati sono quelli ad azione immunosoppressiva: la molecola più utilizzata è Tocilizumab un anticorpo monoclonale già in commercio per l’artrite reumatoide che blocca la produzione di una molecola infiammatoria prodotta dal sistema immunitario in risposta a infezioni virali. Inoltre ci sono anche Anakinra, Sarilumab e Reparixin. Tuttavia, l’utilizzo di farmaci di questo tipo può deprimere l’azione del sistema immunitario dei pazienti che rischiano così di essere aggrediti da altre infezioni.

 

Dino Biselli

Source: Pharmastar